Franz Baumgartner - LA FAMILIARITÀ DELL’IGNOTO

 

Reggio Emilia

 

30 novembre 2008 – 20 gennaio 2009

 

 a cura di Daniele De Luigi

 

La pittura di Franz Baumgartner non cerca di farsi notare. È come se pensasse che se non abbiamo il tempo di soffermarci a contemplarla, sopraffatti dai colori sfavillanti e dai messaggi ammiccanti che ci circondano, dalla frenesia e dal rumore, tanto vale che passiamo oltre. Se invece le concederemo la possibilità di attrarre il nostro sguardo, essa non tarderà ad esercitare su di noi il suo magnetismo. I dipinti di Baumgartner rendono subito evidente un’antinomia: i luoghi raffigurati appaio- no familiari, abbiamo la sensazione di esserci già stati (o di averli già sognati?), di conoscere non solo ciò che vediamo, ma anche quanto esiste oltre la tela - se solo potessimo entrarvi. Come, insomma, se fosse la fotografia di un luogo noto. Eppure, questi luoghi non esistono nella realtà: come spiega l’artista stesso, essi vengono creati unendo soggetti desunti da diverse esperienze visive e frammenti della memoria. Proprio come in un sogno, in effetti, nei dipinti di Baumgartner un albero non è quell’albero, ma albero: un’idea, un nome, un simbolo tradotto in immagine. E così è delle case, delle siepi, di ogni altra cosa che sommessamente popola i suoi paesaggi. Per quanto esse abbiano una forma che riconosciamo come particolare, al tempo stesso la nostra esperienza del mondo ce le fa percepire come universali. Che questa possibilità delle cose di materializzarsi in una forma pura ed essenziale sia una costruzione della nostra mente, non fa altro che sottolineare la magia che scaturisce dalle opere del pittore tedesco – la magia, in fondo, non è quell’equilibrio impensabile capace di risolvere un’aporia?

Le precise scelte stilistiche di Baumgartner sono mirate strategicamente a rafforzare questa impressione. La ristretta gamma cromatica – ma ricchissima di lievi sfuma- ture – che esplora i territori del grigio, e la delicatezza estrema delle lumeggiature volta a creare un effetto di luce uniforme e diffusa, danno vita a un’atmosfera ovattata, nota a chi ha viaggiato nelle terre oltre il Reno, che immerge le cose in un silenzio contemplativo, mentre le cadenze ritmi- che della composizione donano ad esse la stabilità necessaria a poterle astrarre. Una condizione che libera le cose dalle forzature dei significati, ma che anche libera noi dalla tirannia di quegli oggetti che vogliono impedirci di guardare il mondo per quello che è in se stesso.

Daniele De Luigi

 

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